Il giornalismo deve essere accessibile a tutti, non solo alle élite

Oggi, 3 maggio, il mondo celebra la giornata internazionale della libertà d'Informazione. Ma questa celebrazione porta con sé una questione importante: chi ha realmente accesso al mondo dell'informazione? La libertà d'informazione è solo un mito se resta accessibile solo a una piccola fetta di persone privilegiate. E il giornalismo, per essere davvero democratico, deve riflettere le voci di tutti, non solo di una ristretta élite.
La realtà elitaria del giornalismo: quando il background familiare conta più delle competenze
In Inghilterra, un rapporto dell'NCTJ (National Council for the Training of Journalists) ha rivelato che l'80% dei giornalisti proviene da famiglie delle tre fasce occupazionali più alte della nazione. Questo rispetto a una popolazione generale in cui solo il 42% può vantare lo stesso status. In altre parole, il giornalismo è dominato da persone che hanno un background elitario.
In Italia, anche se non esistono dati precisi, la situazione non sembra essere diversa. Pochissime persone senza un background privilegiato riescono ad accedere alla professione. E questo perché la strada per diventare giornalisti passa sempre più attraverso le scuole di giornalismo, che richiedono ingenti investimenti economici, e sempre meno attraverso il praticantato, che in passato rappresentava un'opportunità per chiunque volesse imparare il mestiere sul campo.
Nuove riforme, stessi problemi: rischiamo di favorire la precarietà anziché l'inclusione?
All'inizio del 2023, l'Ordine dei Giornalisti in Italia ha approvato una riforma del praticantato che, a prima vista, sembra voler aprire la professione a un pubblico più ampio. La riforma permette anche a chi non è assunto da una testata di accedere all'esame per iscriversi all'albo, purché svolga attività giornalistica in forma continuativa e retribuita. Ma siamo sicure che questa soluzione non finisca con il legittimare la precarietà lavorativa?
Conosco molte colleghe (e colleghi) che altri membri più âgé si ostinano a chiamare “giovani”, anche alla soglia dei 30 anni (età in cui all’estero si è all’apice della propria carriera e non in fase di praticantato), che vengono pagate 2 euro al pezzo (per farti un paragone, sappi che si percepiscono almeno 50 euro al pezzo in testate un minimo serie).
C'è il rischio che questa nuova modalità restringa il lavoro giornalistico solo a coloro che possono permettersi di passare mesi senza un lavoro stabile, magari vivendo sulle spalle dei genitori (modello tanto caro al sistema italiano). Questo approccio sembra più un privilegio che un'opportunità democratica. Quindi, stiamo davvero ampliando l'accesso alla professione o stiamo solo spostando l'asticella della precarietà?
L'impatto di un giornalismo elitario sulla libertà di informazione: il rischio di una visione distorta della realtà
Quando il giornalismo è dominato dalle classi privilegiate, il rischio è che le notizie riflettano solo gli interessi e le preoccupazioni delle élite. In Italia, l'assenza di uno sguardo working-class si fa già sentire. I discorsi elitari, la feticizzazione della povertà, la retorica lavorista, l'esaltazione acritica della meritocrazia, la demonizzazione delle periferie e della marginalità sociale sono tutti segnali di un giornalismo che non rappresenta realmente la diversità della società.
Se il giornalismo vuole essere il guardiano della democrazia, deve riflettere le voci di tutti, non solo quelle di un gruppo ristretto di persone. Le storie delle persone “comuni”, le loro lotte, le loro vittorie e le loro esperienze devono trovare spazio nei media. Solo così possiamo avere una visione più completa e inclusiva del mondo in cui viviamo.
Cosa possiamo fare? Rendere il giornalismo più accessibile a tutte e tutti
Il primo passo per affrontare il problema è riconoscerlo. Il secondo passo è lavorare per creare opportunità reali per coloro che vogliono entrare nel mondo del giornalismo senza un background privilegiato. Ciò significa sostenere programmi di tirocinio accessibili, ridurre i costi delle scuole di giornalismo e promuovere una cultura inclusiva nelle redazioni.
Un giornalismo a sostegno dei diritti delle donne
Le giornaliste femministe possono svolgere un ruolo chiave in questo processo, mettendo in luce diverse problematiche e lavorando per un cambiamento positivo. Non so dirvi quante volte mi è capitato di essere l’unica donna ad uno dei corsi obbligatori dell’Ordine.
Non sapete quante volte, quando era presente almeno un’altra collega, solitamente sempre molto più grande di me, ci siamo scambiate sguardi che potrei definire di una “compassionevole rabbia” per via di colleghi (uomini cisgender over 50) che si ostinavano a provare a parlare di femminicidi. Chiaramente l’argomento è stato trattato solamente quando c’è stato il caso di Giulia Cecchettin, probabilmente solo perché era un tema caldo e parlarne sembrava dimostrare a loro stessi di essere “giovani e sul pezzo”. Si, sentirsi giovani in questo caso fa “figo”, e si, ho provato a prendere la parola durante uno di questi episodi in cui la narrazione era completamente errata e oscena da ascoltare e sono stata zittita con una frase qualunquista e ignorante che dimostrava la totale mancanza di comprensione sul tema.
Con questo non voglio dire che tutti siano così, anzi! Durante le mie “battaglie” per modificare il Testo Unico (il nostro codice normativo) a favore delle donne, ho trovato un incredibile sostegno da parte di meravigliosi colleghi genuinamente interessati a combattere per le battaglie di quei diritti che non identificavano come puramente femminili, ma umani e universali. Sono davvero grata di aver provato a cambiare le cose con queste preziosissime persone (non ci siamo arresi), che stimo con tutto il cuore, e che si sono sempre dimostrate mentori di spessore dal grande intelletto.
Lottare per una corretta rappresentazione delle donne sui media, al fianco di colleghi, uomini, che riconoscono errori intrinseci nel modo di rappresentare la realtà, e un privilegio patriarcale nel nostro giornalismo, ha qualcosa che oserei definire magico.
Perchè c’è magia, ci sono lacrime di gioia date dalla speranza, quando due uomini si spendono così tanto per i nostri diritti.
Occorre ricordarci che i giornalisti dovrebbero essere i “cani da guardia della democrazia”, con tutto il potere politico e sociale che ne deriva. E qui ricordo scherzosamente, ma neanche troppo, la famosa frase del film Spiderman: “Da grandi poteri derivano grandi responsabilità”. Noi giornalisti abbiamo infatti il dovere di lavorare nella maniera più etica possibile per garantire una rappresentazione corretta (e non corrotta) della realtà, coscienti che il nostro lavoro modelli l’opinione pubblica e, conseguentemente, influenzi il ruolo politico e sociale che viene concesso alle persone.
A questo proposito, ti ricordo che ho creato la Media Sexism Map, in cui ogni persona può liberamente segnalare i casi di giornalismo sessista, per permetterci di segnalare all’Ordine dei Giornalisti comportamenti deontologicamente scorretti e iniziare così a prenderci le nostre responsabilità come ordine professionale.
Se ti interessa, sono anche stata chiamata su una radio nazionale per affrontare questo tema. Trovi il video dell’intervista cliccando qui.
La demonizzazione dei social media
Altro tasto dolente del giornalismo italiano: nell’ultimo anno per fortuna sono nati molti corsi (di quelli per noi obbligatori) interessanti sulle AI, e grazie a questi la narrazione che sento sta finalmente cambiando. Ma resta sempre un fondo di grande diffidenza nella maggior parte dei casi verso i social media, accusati di essere uno strumento demoniaco che ha fatto crollare il giornalismo.
Certo, l’impatto dei social media sul settore ha scatenato una grande crisi e gravi conseguenze, ma ha anche dato l’opportunità di veder nascere un nuovo tipo di informazione (quello per cui tutti noi giovani abbiamo pregato in Italia), fatto di pagine come Factanza Media e di personalità del calibro di Flavia Carlini (che spero un giorno di vedere come Presidentessa del Consiglio dei Ministri in Italia).
L’essere giovani ci permette di avere uno sguardo critico ma oggettivo e inserito concretamente nella realtà odierna del panorama informativo italiano. C’è un motivo per cui praticamente tutti i giovani si informano su testate come Will Media, e non su quelle cartacee o men che meno in TV. Ci sentiamo capiti, ascoltati, sono informazioni dirette che paiono più apolitiche rispetto a quelle delle testate “classiche”.
Ci riconosciamo in questo mondo, parlano la nostra lingua e trattano argomenti di cui davvero ci importa, e lo fanno in modo corretto. Ti sfido a trovare su testate come Factanza qualche riferimento al fatto che i “giovani non abbiano voglia di lavorare”. titoli che fanno victim blaming, o altre stronzate simili.
Come giornalisti nativi digitali, possiamo utilizzare i social media anche per condividere storie di successo di giornalisti che sono riusciti a entrare nel mondo dell'informazione nonostante le sfide. A me in primis è successo, e non certo per magia, ma con anni di duro lavoro, praticantato, ricorsi all’Ordine e non vi dico quanti anni di battaglie in redazione. Ma eccomi qui, che dopo tutte queste sfide guardo il mio tesserino con la fierezza di chi ha scalato l’Everest.
Sarebbe bello se noi giovani giornalisti ci riunissimo, per discutere di tematiche importanti, prendere posto negli organi direttivi, sarebbe bello se organizzassimo noi dei corsi eticamente rilevanti e interessanti da un punto di vista odierno e fresco. Sarebbe bello se imparassimo ad usare una forza collettiva per disegnare un panorama giornalistico etico, sostenibile ed egualitario.
Concludo, per tornare all’argomento principale, dicendo che il giornalismo deve essere accessibile a tutti, perché solo attraverso una gamma diversificata di voci possiamo garantire che la libertà d'informazione sia davvero significativa. A te, che mi stai leggendo, chiedo: che ruolo vuoi giocare in questa battaglia per un giornalismo più inclusivo?
Comments